PADOVA - VENETKENS - Viaggio nella terra degli Antichi Veneti. |
Al Palazzo della Ragione di Padova una interessante ed bella mostra sulla vita degli antichi Veneti nel periodo dal 1000 A.C. al 200 A.C. prima della fusione con il mondo Romano. Il popolo Veneto fu alleato dei Romani contro i Galli e Germani comuni nemici e nella leggenda tramandataci da Virgilio e Tito Livio i due popoli Latino e Veneto avevano una origine comune in quanto provenienti dall’Oriente dopo la caduta di Troia: Enea giunse sulle rive del Lazio e fondò Roma mentre Antenore sbarcò sulle rive dell’alto Adriatico e fondò Padova. Il percorso della mostra si estende a tutta l’area Veneta in quei secoli che comprendeva l’attuale Veneto, la parte bassa del Trentino e tutta l’area orientale del Friuli e parte della Slovenia.
E’ sorprendente constatare che tutta questa area corrispose più tardi al tempo di Augusto alla X Regio Venetia et Histria e nei secoli successivi in età medioevale e moderna al territorio della Repubblica Veneta e ora in parte corrisponde al Veneto odierno con ben 3.000 anni continui di storia. Il periodo di maggiore sviluppo della civiltà veneto antica si ha tra il VII al II secolo A.C. e come raccontano gli scrittori antichi in tutta questa ampia regione c’erano 50 villaggi o città fondatrici praticamente delle attuali centri veneti tra i quali, Padova, Vicenza, Verona, Treviso, Belluno, Oderzo, ognuna con il suo territorio segnato da confini di cui abbiamo qualche reperto e un’ amministrazione propria, preludio dei tanti campanili odierni. Il nome Venetkens si rileva da una stele in pietra con l’iscrizione in Venetico ritrovata a Isola Vicentina, testimonianza di una cultura omogenea di un popolo su questo territorio.(2)
Non c’erano Re né città egemoni ma tutte erano legate tra loro da interessi agricoli, artigianali e commerciali, di lingua e religione, governate da un ceto di maggiorenti simile secoli dopo al governo della Serenissima. Si intuisce che il popolo dei Veneti antichi non era un popolo bellicoso ma essenzialmente di allevatori, agricoltori, artigiani e commerciati insediati prevalentemente lungo i fiumi in case fatte di legno e argilla che naturalmente cercavano di difendersi dalle vicine invadenti popolazioni. Questa propensione per l’allevamento, l’artigianato ed i commerci era favorita dal territorio pianeggiante e dal notevole numero di fiumi e canali navigabili che erano di raccordo attraverso i valichi alpini tra i popoli del Nord Europa e danubiani della civiltà del ferro di Hallstatt con il mondo mediterraneo principalmente con il mondo Etrusco di Bologna ed i Greci che arrivavano con le loro navi nell’Alto Adriatico. Adria da cui deriva Adriatico, era il loro porto principale dove erano scambiati i prodotti dell’artigianato greco ed etrusco con i prodotti metalliferi provenienti dalle Alpi, la preziosa ambra del Baltico, le lane, i prodotti agricoli e gli apprezzati cavalli veneti che nei circhi gareggiavano con il colore azzurro. Dagli Etruschi i Veneti appresero e specializzarono l’arte della lavorazione del bronzo e i caratteri della scrittura che adattarono alla lingua venetica che però era vicina alla lingua latina non all’ etrusca. A Este principale centro culturale e religioso c’era una scuola per l’insegnamento della scrittura frequentato anche da molte donne evidentemente già emancipate.
Del resto, le divinità erano principalmente femminili fra le quali la più importante Reitia sopraintendeva con il possesso della chiave alla vita e alla morte ed erano venerate in santuari naturali presso fonti, terme, fiumi, boschi dove venivano deposte offerte e suppliche di aiuto nonché ex voto di ringraziamento, come succede oggi con il buon Dio, la Madonna ed i nostri Santi. Cambiano i tempi ma la spiccata religiosità dei Veneti si perpetua: nulla di nuovo sotto il sole. Questi santuari confortavano chi percorreva le lunghe e pericolose vie che dalla pianura risalivano le valli alpine, i segni dei quali ritroviamo nell’Alpago, lungo il Piave a Mel, Calalzo (Lagole), Auronzo, lungo l’Isonzo a Tolmino e Caporetto, lungo il Brenta a Levico e lungo L’Adige nella Valpolicella e nei monti di tutta la fascia pedemontana. Altra spiccata cura degli antichi Veneti era il culto dei morti che erano cremati e deposti in vasi di ceramica accompagnati da offerte funebri secondo il rango sociale. Nelle più importanti ritroviamo dei vasi di bronzo dette situle finemente sbalzate riproducenti momenti di vita e personaggi del mondo veneto. Famosa tra queste la situla Benvenuti del VII secolo A.C, ritrovata ad Este dove appaiono, dignitari, pugilatori, guerrieri, agricoltori con le caratteristiche fogge dell’abbigliamento.
In un’altra lamina del VI secolo ritrovata a Pieve d’Alpago nel Bellunese, sono riportare processioni e scene di amplessi coniugali e di parto segno che tra i Veneti di allora l’amore aveva importanza e non era trascurato.
Dopo il II secolo i Romani che invece pensavano sempre alla guerra ed a espandersi, essendo i Veneti loro alleati, iniziarono una pacifica latinizzazione nel Venetorum angulus con la costruzione di strade consolari, la via Annia da Bologna ad Aquileia e la Postumia che collegava Genova ad Aquileia città avamposto romana. Da questo periodo i costumi dei Veneti si latinizzarono come è documentato nella stele funeraria di Ostiana Gallenia dove due personaggi portano la toga alla latina mentre la donna indossa ancora il classico mantello veneto.
La fusione di due popoli conseguente anche alla centuriazione delle terre assegnate ai reduci di guerra, portarono ad una nuova cultura che si espresse con grandi scrittori e poeti latini provenienti da quest’ area quali Tito Livio, Catullo.
L’Epoca Romana
Dopo che il territorio dei Veneti entrò a far parte dell’Impero Romano con la denominazione X Regio Venetia et Istria, non ci furono mutamenti radicali nella forma di governo delle città venete la cui autonomia amministrativa e elettiva venne rispettata dai Romani sempreché non ostacolasse i loro piani politici. Verso il tardo Impero però dopo Diocleziano, la burocrazia imperiale si fece più opprimente nominando un Curator civitatis che in pratica divenne il vero amministratore della città.
L’Epoca alto medioevale
Il tutto cambiò radicalmente dopo la caduta dell’Impero e le seguenti invasioni barbariche. I nuovi arrivati e padroni di origine germanica, instaurarono un sistema di potere verticistico dove alla cima della piramide stava un re o capo clan ed a cascata dipendenti da lui i feudatari a vari livelli fino al popolo che non aveva partecipazione e alcun potere.
Venezia e la gronda lagunare
A questo sistema ferreo che controllava tutto il territorio veneto e italiano faceva eccezione Venezia e la sua gronda lagunare che dopo la caduta dell’Impero Romano rimase libera e indipendente, difesa dalle sue lagune, destreggiandosi tra Re ed Imperatori Goti, Longobardi, Franchi dell’entroterra e la protezione dell’Impero Romano Bizantino d’Oriente che aveva il suo centro a Ravenna. Nella Venezia Marittima non ci fu frattura con le istituzioni del passato Veneto/ Romano. La tradizione vuole che le comunità lagunari formassero un’ organizzazione federativa già nel 466 D.C. con l’elezione annuale nella tipica forma veneta di due tribuni per ogni comunità, affiancati inizialmente da un magister militum di nomina Bizantina, che rimasero in essere fino all’avvento del Dogado. Nel 538 in una lettera inviata da Cassiodoro, politico romano alla corte di Teodorico, inviata ai Tribuni Marittimi della Venetia che aveva un tessuto sociale fondato sul principio di uguaglianza, loda con queste parole il senso ugualitario dei Venetici: “Dunque per tutti gli abitanti c’è l’unica possibilità di saziarsi di pesce. Poveri e ricchi vivono insieme in uguaglianza. Il medesimo cibo ristora tutti, l’abitazione simile accoglie tutti, nessuno può invidiare il focolare degli altri e, così vivendo, evitano il vizio cui il mondo è soggetto.” Nel 697 con i tribuni marittimi delle comunità fu deciso autonomamente dai Venetici di nominare anche un dux o doge con poteri sull’intero territorio e la funzione del magister militum prima nominato direttamente dai Bizantini che consideravano sempre quel territorio una provincia dell’Impero Romano d’Oriente, perché come scrisse lo storico Giovanni Diacono “ determinarono che d’allora in poi fosse più onorevole essere governati dai dogi anziché dai tribuni.” L’assemblea popolare con la quale si eleggeva il Doge era composta teoricamente da tutte le classi sociali distinte in majiores, mediocres, minores e dal clero ma naturalmente era dominata dalle famiglie più potenti del ceto tribunizio formato da proprietari terrieri e dal nascente ceto dei mercanti ma tutti legati nell’esercizio del potere a larghi strati sociali. La classe dei majores proponeva il nominativo alla carica di Doge ma doveva ottenere l’acclamazione popolare poiché era considerato dalle classi inferiori un patronus che doveva assicurare anche il benessere dei servi. Di conseguenza i più abbienti dovevano presentare la scelta del Doge come la migliore per l’ intera comunità diversamente poteva dalla stessa essere destituito. In tutti i documenti ufficiali come per esempio nel patto di Lotario il Doge era nominato “ cum ipso populo veneticorum “. Tale principio dell’elettività è stato sempre mantenuto in tutte le magistrature veneziane. Il compito del Doge era di procurare benessere al popolo ma il rapporto tra Doge e popolo era più di un patto clientelare ed aveva un carisma regale- sacrale poiché la sua autorità discendeva direttamente da Dio come d’altronde in quel tempo era l’autorità di Re ed Imperatori. A tal proposito è opportuno ricordare la leggenda dell’anello episcopale di San Marco che era portato al dito dal Doge e non dal Patriarca, con la quale è evidenziato il carattere religioso del rapporto tra il popolo e il Doge. Si narra che dopo le vicissitudini di una violenta tempesta un vecchio pescatore ricevette da San Marco il suo anello d’oro con l’incarico di presentarlo al Doge. Il pescatore obbedì ricevendo una ricompensa. Questa leggenda presenta San Marco che concede autorità sacrale, episcopale, al Doge tramite un intermediario preso dal popolo. Il significato è che l’investitura del Doge dipende in qualche modo dal consenso popolare ma soprattutto che il Doge ha una funzione sacra avendo le prerogative episcopali di San Marco. Per questo il Doge era sempre presente in tutte le feste e manifestazioni popolari dallo Sposalizio del Mare, alla Festa delle Marie e poi del Redentore. Pur avendo agli inizi del Dogado in tempi difficili per la vita della città potere autoritario, con i nobili il rapporto del Doge era invece un” primus inter pares”, poi nei secoli successivi essendo la città più sicura da attacchi esterni, prevalse la forma collegiale di governo e la sua autorità diminuì tanto che la sua condizione era lapidariamente così definita:” in habitu princeps, in senatu senator, in foro civis “. Il Doge non poteva essere chiamato Principe o Signore ma solo messer lo doxe ed era vietato inginocchiarsi davanti a lui. Nella sua attività di stato era circondato, assistito, controllato da nobili variamente denominati iudices, sapientes, fideles nostri, boni homines, preordinati non poteva prendere alcuna deliberazione personale, scrivere o leggere lettere da solo senza l’assistenza di consiglieri, né uscire di palazzo se non in forma solenne nel tempo fissato dal cerimoniale e alla sua morte il potere tornava all’assemblea come ai tempi dei Re di Roma ( ìauspicia ad patres redeunt). Una costante della storia veneta è di contemperare l’autonomia delle singole comunità con l’unità dello stato, facendo prevalere il bene dell’intera comunità a costo di continui e pazienti compromessi poiché ogni famiglia patrizia influente nell’elezione del Doge, aveva con il popolo minuto un rapporto clientelare che derivava e rispettava come da usi antichi veneti e romani. I patrizi veneziani erano personalità di origine indigena e non sono paragonabili ai nobili di origine franca o germanica che avevano il potere nelle altre città dell’entroterra. Esercitavano generalmente un’attività economica non gravando sul popolo di cui condividevano la stessa cultura tanto che la lingua popolare” il dialetto polito veneto” era regolarmente usata dallo stesso doge nelle riunioni ufficiali . La solerzia del patriziato veneziano verso il popolo si manifestò in qualche misura anche nella politica di espansione in Terraferma schierandosi sovente contro i nobili locali di estrazione estranea , ricevendone in cambio fedeltà nei momenti difficili per la Serenissima come nella disastrosa guerra del 1509. E’ interessante fare un paragone di questo comportamento del popolo con il fatto riportato da Macrobio durante la guerra civile di Roma quando la vendetta di Marc'Antonio si abbatté su Padova, ed i proprietari terrieri veneti perseguitati furono nascosti e salvati dai loro servi nonostante i premi e le promesse di libertà. A Venezia il patriziato non si distingueva per nascita e non poneva ostacoli ai matrimoni tra patrizi e popolani. Non vigeva la separazioni delle classi caratteristica del feudalesimo di origine germanica e le dimore dei ricchi e dei poveri non erano lontane ma contigue in una comunità varia ma integrata. Il popolo tuttavia era in pratica escluso dalla gestione del potere ma il ceto dirigente si preoccupava del consenso popolare ed attuava una efficace politica onde evitare ribellioni che a Venezia nella sua lunga storia ci furono raramente. Una delle usanze che risaldavano il ceto dei più abbienti a quello dei popolani erano le numerose, dispendiose e affollate feste popolari che i ricchi si facevano obbligo di sovvenzionare e dove non si badava a spese per ben figurare ed impressionare il popolino. Altra caratteristica veneziana di grande unione e solidarietà erano le Scuole Grandi gestite dal patriziato ma anche da classi di artigiani e commercianti che avevano il fine di prestare assistenza nelle più svariate forme verso i più bisognosi. La concezione dello stato sopra tutto obbligava i nobili a vestire in pubblico semplici toghe nere in segno di uguaglianza di diritti e non era permesso a chiunque per quanto meritevole, di celebrarsi con lapidi pubbliche o monumenti equestri . L’unica eccezione fu il monumento al condottiero Colleoni che non era però un patrizio veneziano. Un francese Fernand Braudel scriveva: “ A Venise tout est pour l’Etat, a Genes, tout pour le capital . A Venezia l’iniziativa individuale andava bene finché coincideva con gli interessi della collettività. Chiunque agisse contro i suoi dettati, doge o mercante o artigiano che fosse, era perseguitato. Tale controllo capillare dello Stato impedì il formarsi a Venezia di associazioni capitalistiche private e moderne che a Genova e Firenze ebbero notevole successo ma ciò era dettato dal timore che gruppi privati ed estranei potessero influenzare o controllare il commercio e di conseguenza il benessere e la sicurezza dell’ intera comunità. Questa visione ristretta della economia comportò in seguito il mancato aggancio di Venezia all’economia capitalistica e di sviluppo, caratteristica dei secolo 600-700 e conseguentemente nei secoli dell’età moderna. In politica estera l’azione della Serenissima era dettata da interessi commerciali e le guerre furono conseguenti all’ affermazione e difesa della sua supremazia politico-commerciale nel Mediterraneo e delle relative vie commerciali vitali per la sua grandezza, non per semplice desiderio di conquista, talché in genere i paesi gravitanti nell’orbita veneziana sia di terra che di mare, godevano del rispetto degli statuti locali sempreché questi non fossero in contrasto con gli interessi della Dominante, alla quale questi paesi rimasero per secoli fedeli. Non per nulla all’arrivo del predatore Napoleone che provocò insorgenze in tutto il Veneto, l’ultima ammaina bandiera del Leone Marciano tra la commozione generale avvenne a Perasto nell’attuale Montenegro. Da questo breve cronistoria di 3000 anni di storia veneta è evidente che fin dalla protostoria questa regione è stata al centro di importanti vie di comunicazione e commerci tra il Mediterraneo ( Greci, Etruschi poi Romani ) ed il Nord dell’Europa ( minerali) e sù fino al Baltico ( ambra). Questi traffici oltre alla fertilità della pianura, furono per i Veneti fonte di una certa prosperità ed i contatti diversi popoli contribuirono alla loro formazione culturale ( scrittura, artigianato, religione etc.). Dopo gli sconvolgimenti seguiti alle invasioni barbariche, le città nuovamente risorsero e Padova con l’indirizzo aristotelico scientifico della la sua università e Venezia con la sua liberalità e splendore, contribuirono all’avvio dell’Umanesimo e alla formazione dello spirito scientifico moderno. Tutto questo fu possibile oltreché dalla sapienza dei governanti anche dal retaggio di civiltà che permise in tutta area veneta per un arco di tempo di tre millenni una continuazione delle classi dirigenti di estrazione locale che produssero nella costituzione veneziana un insieme di aspetti repubblicani e principeschi, democratici e oligarchici. Poteva una tale costituzione sopravvivere all’incalzare della democrazia moderna nata dalla rivoluzione americana e poi francese ? Domanda retorica. Ma la storia insegna che a un paese conquistato cui viene tolta l’autonomia, la democrazia diventa una parvenza. Per chi vuole e sarebbe bene, c’è ancora tanto da imparare oggi dalla nostra secolare storia che se ha retto per tutto questo lunghissimo tempo ci saranno pure i motivi, i principali dei quali sono stati autonomia, collegialità del governo, benessere e armonizzazione sociale.
( testo estratto dal libro “ Dal Pilpotis al Doge –la collegialità del governo veneto- Carlo Frison).
|
|
|